Le parole di Ned Segal, capo dell’ufficio finanziario di Twitter, lasciano pochi dubbi: Donald Trump non sarà riammesso sulla piattaforma social nemmeno in caso di una nuova corsa alla Casa Bianca.
L’esclusione dell’ex presidente americano dai social network con l’accusa di fomentare violenza, a seguito dei fatti di Capitol Hill, ha generato un grande dibattito sulla libertà d’espressione. È lecito “silenziare” un esponente politico in questo modo?
Eppure, l’analisi di Dario Fabbri per la rivista Limes nota quanto un dibattito di questo tipo non c’entri il fulcro reale della questione. Nell’arco di due appuntamenti, l’analista geopolitico, infatti, ha messo in luce la stretta connessione esistente tra le aziende della Silicon Valley e lo Stato federale americano.
Il patto tra i Big Tech e il governo federale
Fabbri parte dalla convinzione, diffusa quanto errata, che le grandi aziende tecnologiche statunitensi abbiano un potere quasi al di sopra di quello politico. In realtà – spiega – queste ultime si basano su tecnologie che non sono di propria invenzione, a partire da Internet, nato in seno alle ricerche del Pentagono. Quest’ultimo aveva infatti bisogno di una rete interna di comunicazione. Le forze armate americane hanno inventato i microprocessori e anche i cellulari, che oggi abbiamo in tasca, sono nati in ambito militare. Risalgono, nello specifico, alla prima guerra del Golfo.
Gestori ma non inventori di una tecnologia che quindi non possiedono, i Big Tech hanno sede nel cuore degli Usa. Tra esse e lo Stato federale vigerebbe un vero e proprio “patto”, che vedrebbe i colossi tecnologici muoversi nell’interesse nazionale. Il timore è quello che “alla prossima infornata di tecnologia che lo stato federale realizzerà potrebbero essere tagliate fuori” e sostituite da altre aziende.
Fabbri fa l’esempio dello Sherman Act del 1890, con cui il monopolio di grandi aziende petrolifere americane fu distrutto, mettendo al bando cartelli e monopoli tra gli Stati federali. Così oggi, da un lato, l’amministrazione Usa non approverebbe rigide leggi su privacy e antitrust e, dall’altro, i colossi tecnologici dovrebbero fornirle preziosi dati.
Chi ha silenziato Donald Trump?
Tornando alla vicenda di Donald Trump, dunque, la vera domanda da porsi non è se sia stato giusto silenziarlo o meno, ma piuttosto chi lo abbia silenziato.
La scelta, d’altronde, da un punto di vista strettamente economico, è assolutamente svantaggiosa. Che lo si appoggi o meno, Donald Trump produce traffico sui social network, un traffico che oggi è venuto meno. Questa sorta di damnatio memoriae risponde più agli interessi degli apparati federali americani che non a quelli delle aziende tecnologiche.
“Se è vero che queste aziende sono fragilissime, che dipendono dallo Stato federale per le loro tecnologie e che possono essere espulse dal mercato attraverso leggi ferree – ragiona Fabbri –, allora non è possibile che abbiano deciso da sé, anche perché molte stanno pagando dal punto di vista finanziario la decisione di bandire Trump. Eliminare Trump, un signore che provoca grande traffico sui social network, non può essere una scelta felice dal punto di vista finanziario. Una scelta evidentemente concordata, o anche imposta, dagli apparati federali americani“.