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La prigionia, i jihadisti, la finta conversione all’Islam: Edith Blais racconta il sequestro di 15 mesi in Africa

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La prigionia, i jihadisti, la finta conversione all’Islam: Edith Blais racconta il sequestro di 15 mesi in Africa

martedì 12 Gennaio 2021 - 11:01
La prigionia, i jihadisti, la finta conversione all’Islam: Edith Blais racconta il sequestro di 15 mesi in Africa

Uscirà tra qualche giorno in Francia “Le sablier”, il libro autobiografico della canadese Edith Blais, rapita in Mali insieme al fidanzato padovano Luca Tacchetto. La coppia è stata in mano dei jihadisti per 15 mesi, da dicembre 2018 fino a marzo 2020.

Edith Blais racconta la prigionia

A riportare la ricostruzione dei 450 giorni di prigionia è Il Corriere del Veneto. Conosciutisi nel 2016 a Jasper, sulle Montagne Rocciose, Edith e Luca avevano viaggiato già diverse volte insieme, fino a progettare l’avventura che li avrebbe portati dal Padovano al Togo in auto. Tuttavia, in Burkina Faso i due non riescono ad ottenere il visto necessario e si trovano così costretti a lasciare il Paese. A meno di 50 chilometri dal confine, nel Parco degli Elefanti, vengono rapiti.

“Ci aspettavano sei uomini in turbante, armati di kalashnikov. Quattro di loro si gettarono su Luca, puntandogli contro le pistole come pazzi”, scrive la Blais, raccontando i passaggi da una banda di sequestratori all’altra.

Bambini soldato, fame, una dura prigionia e dopo 79 giorni la separazione. La canadese si ritrova da sola accanto ad altre prigioniere, prima di essere ceduta nuovamente, ad agosto, ai Tuareg. Lì la consegna di due lettere dal Canada, che mostrano che le diplomazie sono in contatto coi rapitori.

La finta conversione all’Islam

Diventerai musulmana! – le intima il carceriere a dicembre del 2019 – Se morissimo e ci trovassimo entrambi davanti a Dio, mi chiederebbe perché non ti ho convertita. Cosa dovrei rispondere? Che ho provato, ma tu non volevi ascoltarmi? No!». Edith Blais allora accetta per finta e prende il nome di Asiya: “Mi sono lavata e ho indossato il hijab […] Non mi pento della mia scelta: dovevo sopravvivere e la conversione era il male minore. Oggi non ho conservato nulla di questa religione”.

Dopo qualche giorno, il ricongiungimento, dopo undici mesi di separazione, a Tacchetto. Anche il giovane si era convertito, dopo un’inasprimento della prigionia legato ad un tentativo di fuga. Picchiato, legato a un albero e costretto con catene per due mesi, aveva accettato di convertirsi col nome di Sulayman.

“Secondo il Corano ora eravamo loro fratelli – scrive Edith Blais – e dovevano trattarci con rispetto, anche se restavamo degli ostaggi”.

La fuga e la pandemia

Infine, la fuga a marzo 2020, col favore della notte e grazie ad un camion che porta i due giovani fino a Kidal, davanti ad un edificio governativo. Lì la coppia apprende per la prima volta della pandemia di Covid-19, di cui non aveva mai sentito parlare prima.

“Avrei voluto stringergli la mano, ma invece mi ha offerto il suo gomito“, scrive la giovane in merito all’incontro con un delegato Onu a Bamako, capitale del Mali. “L’ambasciatore ha capito che non sapevamo nulla e quindi ci ha spiegato che eravamo nel bel mezzo di una pandemia. Per la prima volta ho sentito parlare del coronavirus. E io che, rinchiusa nel deserto, mi ero chiesta tante volte cosa succedesse altrove sul pianeta”.

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